Parlare di design oggi significa anche ricordare quando e come il colore è stato usato per negare l’identità, per classificare, per disumanizzare.
Nei campi di concentramento nazisti, il colore era un codice.
Un triangolo di stoffa, cucito sulla giacca e sui pantaloni, identificava il "tipo" di prigioniero: politico, ebreo, omosessuale, rom, testimone di Geova, criminale, "asociale".
Una gerarchia cromatica per controllare e umiliare.
Un triangolo di stoffa, cucito sulla giacca e sui pantaloni, identificava il "tipo" di prigioniero: politico, ebreo, omosessuale, rom, testimone di Geova, criminale, "asociale".
Una gerarchia cromatica per controllare e umiliare.
In mezzo a tutto questo, la storia di Germano Facetti ci ricorda il potere umano e grafico del segno. Deportato a 17 anni a Mauthausen, sopravvisse anche disegnando.
Quel taccuino — realizzato con stoffa dell’uniforme e rilegato con filo di rame — è un atto di resistenza visiva.
Facetti sarebbe poi diventato uno dei graphic designer più influenti del Novecento, rivoluzionando Penguin Books e introducendo l’uso del colore come codice visivo editoriale.
Quel taccuino — realizzato con stoffa dell’uniforme e rilegato con filo di rame — è un atto di resistenza visiva.
Facetti sarebbe poi diventato uno dei graphic designer più influenti del Novecento, rivoluzionando Penguin Books e introducendo l’uso del colore come codice visivo editoriale.
📘 La fiction in arancione. Il crimine in verde.
Il colore come struttura narrativa, non solo estetica.
Il colore come struttura narrativa, non solo estetica.
🧠 Cosa ci ricorda tutto questo?
Che il colore è un linguaggio potente.
Può dividere, escludere, umiliare.
Oppure raccontare, unire, salvare la memoria.
Che il colore è un linguaggio potente.
Può dividere, escludere, umiliare.
Oppure raccontare, unire, salvare la memoria.
🎨 La scelta di una tinta non è mai neutra.
Nemmeno oggi.
Nemmeno oggi.
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